I fratelli Angelo e Alfredo Castiglioni, hanno condiviso una vita avventurosa e appassionante, che li ha portati sulle strade dell’Africa. Hanno fissato il ricordo delle tradizioni di popoli che stavano scomparendo e hanno scoperto importanti siti archeologici: da Berenice Pancrisia, la città nel deserto che forniva l’oro ai faraoni egiziani, alle affascinanti basiliche paleocristiane rinvenute negli scavi del porto di Adulis in Eritrea lo scorso novembre.

Etnologi e archeologi sul campo, hanno raccolto le testimonianze di 60 anni di viaggi negli spazi del Museo Castiglioni di Varese, oggi diretto con competenza e passione da Marco Castiglioni, figlio di Angelo. Proprio Angelo Castiglioni ci dona alcuni episodi di un racconto lungo una vita, che ci trasporterà negli assolati spazi africani, a fianco del fratello gemello Alfredo – mancato nel 2016 – e riportandoci all’inizio di tutto, a una partenza che aveva qualcosa a che fare con la follia della gioventù.

Questa nostra grossa passione è iniziata subito dopo la guerra – ricorda Angelo -. Abitavamo in un paese vicino a Marchirolo e vedevamo le luci della Svizzera, che era illuminata mentre noi eravamo al buio. Quando l’Italia è stata liberata e la guerra è finita ci siamo detti: andiamo a scoprire il mondo! E l’abbiamo fatto in una maniera un po’ garibaldina. A quel tempo i giovani si muovevano con la Lambretta o con la Vespa, c’è stato chi è andato fino a Capo Nord! Noi eravamo affascinati dall’Africa, perché avevamo letto dei libri e ne avevamo tanto sentito parlare. Così siamo partiti verso questo mondo molto misterioso!”.

“Abbiamo organizzato il viaggio in Vespa: dall’Italia siamo passati alla Francia e alla Spagna e siamo arrivati fino allo stretto di Gibilterra, dove ci siamo imbarcati. Da lì abbiamo raggiunto il Marocco, scoprendo un modo che non conoscevamo. Allora il paese era diviso tra Marocco francese e Marocco spagnolo. Non era molto sicuro viaggiare, perché c’erano dei gruppi indipendentisti che non vedevano di buon occhio i bianchi”.

“Noi avevamo una formazione economista: forse è stato un po’ incosciente buttarsi in un’avventura sconosciuta, senza conoscere lingua e abitudini. Tutto era nuovo, ma io e mio fratello Alfredo ci siamo adattati molto bene sia al clima che al cibo. Abbiamo sempre rispettato le popolazioni che incontravamo, senza mai sentirci superiori a nessuno, neppure ai popoli più primitivi che abbiamo conosciuto. Stando a contatto con loro ne abbiamo scoperto il modo di vivere. Allora, con la Vespa, siamo scesi fino al Rio de Oro,  quella che oggi è la Mauritania. Abbiamo anche avuto qualche piccolo inconveniente, io – ad esempio – sono caduto e mi sono rotto un braccio, ma il nostro equipaggiamento era fatto più di attrezzi e di pezzi di ricambio per la Vespa che altro! Era tutto molto spartano: il braccio me l’ha ingessato un ufficiale della legione straniera”.

Marco Castiglioni interviene, portando il suo ricordo di figlio: “Mio padre non ha raccontato un aspetto di questa avventura. Lui e mio zio avevano detto al padre che andavano in Costa Azzurra e hanno fatto una piccola deviazione! Mio nonno era molto paziente e conosceva i suoi figli, quindi li ha lasciati liberi di fare quello che più gli piaceva e ha avuto ragione, perché in sessant’anni di viaggi hanno ottenuto davvero tanti risultati. Stavano via ogni volta dai 3 ai 6 mesi e non c’erano i mezzi che ci sono oggi per comunicare! Potevano essere vivi o morti. Si sapeva che andavano “là” e poteva essere in Niger o in Camerun… Per fortuna sono sempre tornati, nonostante i rischi corsi. Anche perché nel tempo hanno affinato la tecnica rispetto al primo viaggio! Mia mamma mi ha detto che, quando ero piccolo, ogni volta che vedevo un aereo nel cielo dicevo ‘papà!’”.

Riprende la parola Angelo Castiglioni: “Il primo viaggio è stato una grande avventura, ma quelli successivi non sono stati da meno, anche se ci siamo organizzati meglio!  Ad esempio, una volta abbiamo viaggiato con un mercantile francese – allora venivano usati come mezzi di trasporto – che faceva scali commerciali  in tutti gli stati che si affacciavano sul Golfo di Guinea.

Con questo mercantile siamo arrivati fino in Camerun e lì abbiamo scoperto un mondo fermo nel tempo. Con tutti i mezzi possibili e immaginabili siamo saliti fino a Nord, quasi al confine con il Ciad e lì siamo entrati a contatto con una popolazione paleonegritica: a quei tempi vivevano completamente nudi, uomini e donne. Era un mondo ancestrale, vecchissimo, fermo nel tempo. Era una pagina di storia; in queste popolazioni vedevamo il nostro passato. Poiché c’era poco di scritto su di loro, si sapeva poco e – soprattutto – non c’era alcun filmato né fotografia, abbiamo pensato di fermarci per qualche mese sulle montagne del Nord Camerun e devo dire che è stata un’esperienza incredibile, dove abbiamo scoperto le tradizioni legate alla morte e alla nascita”.

“Voglio proprio raccontarvi di un momento che abbiamo vissuto con la gente del posto: un parto. Il parto è un atto fisiologico, ma lì esiste tutta una serie di rituali che precedono e seguono questo momento. Siamo saliti su una montagna, cosa non facile perché era notte e faceva molto freddo. Abbiamo aspettato con fatica che una donna partorisse. Il fatto di essere rimasti tanto tempo fermi con loro ci ha permesso di entrare a far parte del gruppo: non ci consideravano più estranei. Così abbiamo visto il parto e per noi, 22enni, è stato quasi uno shock! La donna avrebbe partorito sullo stesso sasso “magico” su cui partorivano tutte le donne del villaggio. La partoriente veniva aiutata dalle altre, in particolare dalle anziane e da una sorta di “levatrice”, che la sostenevano per le spalle, mentre apettavano che nascesse la piccola, perché quella volta era una femmina. Il rituale è stato complicato, perché la bimba non riusciva a nascere, allora hanno chiamato il marito. Gli uomini, in realtà, non partecipano a questi riti femminili, ma nel momento della difficoltà il padre, come depositario della cultura religiosa del gruppo, è andato in cima a una collina e, nel buio assoluto, ha invocato l’aiuto degli antenati, dei morti. Si dirigeva verso i quattro punti cardinali e diceva le sue preghiere. Poi, fatta la sua parte, è tornato a dormire!”.

“Ma i problemi non sono finiti e, allora, è entrata in campo la magia: la vecchia “ostetrica” ha preso un pulcino, gli ha inciso il collo e ha fatto colare del sangue sul ventre della partoriente, in una sorta di magia di richiamo: il sangue del pulcino richiamava il sangue del parto. E, finalmente, la bambina è nata. Bianca, perché i neri nascono bianchi. C’è stato tutto il rituale del taglio del cordone ombelicale. La “fattucchiera” ha aiutato la piccola a respirare prendendo in bocca naso e bocca e poi l’ha bagnata per provocare il pianto. E’ stato un rituale molto interessante.

Marco Castiglioni ricorda che “c’è un altro risvolto dietro questa nascita. Il papà e lo zio, filmavano tutti questi rituali – le pellicole sono tutte conservate al Museo Castiglioni – e, per aiutarli, li seguiva un ragazzo che avevano incontrato da dei missionari e conosceva un po’ di francese. Lui aveva il compito di ricaricare la macchina con la pellicola. Mio padre gli diceva in francese ‘dammi la telecamera, donne moi la camerà’. E che nome è stato imposto alla bimba? ‘Camerà’. Quindi oggi, sui monti del Camerun, c’è una signora settantenne che si chiama ‘Camerà’!”.

“Infatti – aggiunge Angelo Castiglioni – i Matakan del Camerun portano i nomi di avvenimenti speciali. Molte donne si chiamavano ‘Zarai’, che vuol dire cavalletta, ed erano nate proprio in un periodo di migrazione di sciami di questi insetti che mangiavano tutto il raccolto. Una cosa che mi ha molto colpito è stato il fatto che poi sono stati tratti gli auspici per vedere se la bambina avrebbe avuto una vita lunga e felice o sarebbe morta prima del tempo, perché – purtroppo – la mortalità era molto elevata. Allora il capovillaggio ha tracciato un cerchio sulla sabbia e poi ha preso dell’acqua e l’ha fatta cadere a gocce dall’alto. Tutti  i componenti del villaggio lo circondavano, attenti. La goccia, toccando suolo, si spezzava. Se gli schizzi restavano dentro al cerchio la vita sarebbe stata lunga e felice, con tanti figli. Ma se gli schizzi uscivano dal cerchio tutti si mettevano a piangere e gridare, perché i presagi erano negativi”.

Abbiamo deciso di fissare questi momenti perché stava cambiando tutto. C’era  una modifica in atto. Noi siamo andati in Camerun nel 1960, quando il paese era passato dall’essere un protettorato francese all’indipendenza. Abbiamo assistito anche a un cambiamento di tipo politico e alle guerriglie e alle lotte interne nate per prendere il potere: i diversi gruppi etnici lottavano tra loro. Questi mutamenti erano molto rapidi e io e mio fratello abbiamo pensato che valesse la pena di preservare il ricordo del passato, di ciò che stava scomparendo”.

“Una delle cose che ci ha spinti a fare questo tipo di ricerca sono state le parole di Léopold Senghor: un grande poeta, oltre che presidente del Senegal. Senghor è stato primo nero, il primo africano, a entrare nell’Accademia di Francia. L’Accademia di Francia  era riservata ai bianchi, ma lui è riuscito a farne parte. Ha detto una frase bellissima: ‘uomini bianchi, andate nelle mie terre, negli sperduti villaggi e parlate con gli anziani depositari della tradizione, i griò, che sono i cantastorie. Il sapere è dentro la loro testa. Poiché non esiste una tradizione scritta, ma solo quella orale, quando questi anziani moriranno è come se per voi bruciassero tutte le biblioteche’”.

Tornando in Italia Angelo Castiglioni, che per noi è un griò bianco, conclude questo suo ricordo sottolineando che “un’importante amicizia e umana e lavorativa è stata quella con il professor Guglielmo Guariglia che era direttore dell’Istituto di Antropologia Culturale e di Etnologia all’Università Cattolica di Milano – era docente di cattedra. Con lui e con la sua assistente Giovanna Salvioni, che ha preso il suo posto quando è mancato, ci trovavamo per risolvere problemi e quesiti che nascevano durante le nostre ricerche.     Noi documentavamo tutto, ma poi volevamo anche capire perché accadevano certe cose”.

E, infine, belle le parole di Marco Castiglioni che afferma: “tutto quello che so di etnologia ed archeologia è frutto dei ricordi di mio padre mio zio. Stavano via a lungo, mesi e mesi, ma quando tornavano mi raccontavano cose meravigliose, che i miei coetanei non avevano il privilegio di poter ascoltare. Erano avventure vissute, uno sguardo da dentro, un contatto diretto con un mondo sconosciuto”.

Chiara Ambrosioni