Tramonto a Punta Corvo (1970)

Sarebbe senz’altro piaciuto a Piero Guccione (Scicli 1935-Quartarella, Modica, 2018) l’antico convento dei Serviti a Mendrisio nelle cui stanze fino al 30 giugno è allestita una mostra di suoi quadri molto belli dove veramente rifulge “la pittura come il mare”. Sono opere colme di luce chiara e di silenzi infiniti, due “cose” cercate e ricercate dall’artista in un percorso intenso, tutto teso a recuperarne l’intima essenza. Un tema, quello del mare, diventato per Guccione quasi ossessivo, come per Cézanne la Sainte-Victoire, soprattutto negli anni della maturità, dopo il ritorno da Roma alla terra madre, in uno dei lembi estremi della Sicilia. Aveva lasciato la capitale e il suo brulicante ambiente artistico-culturale, dove pure era figura di spicco, per andare a cercare linfa nuova proprio nell’immensità del “suo” mare non distante dalle alture di Quartarella dove aveva scelto di vivere per sempre. Un mare che diventava spettacolo sublime, avvincente per i suoi colori così mutevoli e così balenanti di luce, per il suo confondersi e perdersi nel cielo, per il suo rumore arcano e soprattutto per il mistero vitale in cui naufragare è dolce. Stava lì davanti a vederlo e a sentirlo e poi risaliva nello studio a cercare di fissare emozioni e sensazioni su tele o fogli dove in estesi campi cromatici

I tre movimenti del mare, dedicato a Franz Schubert (1980)

pare di vedere raggiunta, massimamente nelle ultime opere, una vagheggiata serenità. Nulla doveva turbarla, né un’onda spumeggiante o uno scoglio erto e frastagliato, né, tantomeno, l’animazione di barche e pescatori. Al massimo una lieve striscia di sabbia di un bianco quasi accecante o una luna o un sole che svaniscono nei crepuscoli. Solo questo rimane della figurazione, amata certo dall’artista, ma in questi lavori decantata con sofferto e lungo lavorio e resa essenziale al massimo, quasi al limite, tuttavia mai sorpassato, dell’astrazione. Olii e pastelli ci appaiono così di una difficile semplicità, sempre dentro la ricerca del mistero di identità fra natura e pittura.

Non si può non evocare per Guccione l’aggettivo “romantico” e d’altra parte lo stesso artista ammise d’esser stato folgorato dalle opere di Caspar David Friedrich scoperto nella mostra

Mare verticale (1983)

del Romanticismo a Parigi del 1977. Ma, se romantico è, lo è del nostro tempo. Più che mari di nebbia, egli ha cercato un mare luminoso e solare e, “come una sentinella solitaria o un avamposto sperduto, ha scrutato oltre il paesaggio in cerca di un’apparizione” secondo le parole di quel sottile critico che fu Giorgio Soavi. Guccione d’altra parte è stato molto stimato e inteso dagli scrittori e dai poeti (in fondo anche lui lo fu) che numerosi dedicarono intense pagine alle sue opere. Elencarli tutti sarebbe un catalogo più lungo di quello di Leporello e si farebbe un torto citarne solo alcuni. E allora viene in mente Leopardi che di sicuro l’avrebbe apprezzato e che davanti alla “Notte stellata”, una tela degli ultimi anni, avrebbe suggerito di accostarle i versi del suo “Canto notturno di un pastore errante per l’Asia”: “che fa l’aria infinita, e quel profondo/ infinito seren? Che vuol dire questa/ solitudine immensa? Ed io che sono?”.

Giuseppe Pacciarotti