Il capitale umano è il valore materiale che la logica assicurativa attribuisce alla nostra vita. Anima, sentimenti, passioni, abilità e intelligenza, sono tutti orpelli che non contano. A fare cassa, per così dire, sono gli unici parametri che interessano ai maschi adulti del nuovo film di Virzì: reddito, salute, carriera attuale o eventuale.

Impostata come una breve parabola a forte trazione femminile, l'ultima fatica del regista toscano si traduce in una riflessione amara su un'epoca, la nostra, in cui il concetto stesso di ricchezza è labile, effimero, drammaticamente relativo.

Davanti all'occhio della cinepresa si muovono gusci di esistenze donate, negate, elargite o semplicemente fraintese. Le vere protagoniste, come anticipato, sono le donne. Tutte, a diversi livelli, vivono di una luce che, anziché riflessa, è distorta, tagliata: illumina i loro corpi, ma lascia in ombra il cuore. Già, il cuore: quello che Woody Allen definiva "un muscoletto molto elastico" e che Virzì trasforma in co-protagonista, motore narrativo, reagente chimico delle figure femminili che tratteggia. Con tutte le distinzioni del caso. Quando il cuore è fragile e infarcito di ingenuità (come nel caso di Carla), gela nella solitudine. Quando è grande e innamorato (come quello di Serena), accetta il sacrificio, cibandosi di desiderio, passione, speranza e attesa. E quando è solido e robusto (come il cuore di Roberta, il personaggio più coraggiosamente sfumato) batte più forte dei pensieri, accoglie le sofferenze altrui e si prepara alle vite che verranno con la gioia di chi scruta l'orizzonte confidando nell'intrinseca generosità dell'assoluto.

Gli uomini, al contrario, sono distanti e distanziati: resi miopi da una visione monodimensionale che appiattisce le prospettive rendendoli aridi, sbrigativi, anaffettivi e soprattutto superficiali. Tutti, nessuno escluso. Dal più caricaturale "vorrei ma non posso", al più ambizioso "posso ma vorrei sempre di più", passando per il rampollo infelice e l'emarginato dal cuore tenero e genuino, ma che davanti a un Suv cede alla componente più effimera della propria inadeguatezza. O il giovane intellettuale al quale basta una notte d'amore per perdere staffe, dignità e trebisonda.

Sono tutti deboli, ma restano a galla: chi per fortuna, chi per cinismo, chi per amore. A cadere, invece, è l'unico uomo che dimostra più tenacia di tutti gli altri messi insieme. Che lavora fino a tardi e si muove in bicicletta, al buio e al freddo. Sono sue le gambe su cui il racconto si muove, pedala, spinge il microcosmo di provincia orchestrato da Virzì, in un gioco a incastro che riprende la virtuosa eredità di Kurosawa e di Kubrick. E' di quel personaggio il capitale umano che dà origine e (dis)continuità a questa "ballata" brianzola. Segno che tante delle nostre più vitali dinamiche sono determinate dagli ultimi, che ci passano accanto, ci sfiorano, ci sorridono. Ma noi, impegnati a inseguire i nostri fantasmi, non ce ne accorgiamo neanche.

Post scriptum. Paolo Virzì è stato bersaglio di critiche velenose perché, secondo i detrattori, il suo film proporrebbe un ritratto ingeneroso del Settentrione. Ovviamente, si tratta di una colossale idiozia, tipica di chi guarda all'arte come il personaggio di Bentivoglio guarda alla propria famiglia: un soprammobile, bello da possedere, a patto che non disturbi. Ma in questo caso gli attacchi non sono soltanto stupidi, sono anche controproducenti. Dal punto di vista del marketing territoriale, lo spaccato offerto dal Capitale Umano rappresenta un volano notevole, per un motivo semplicissimo: ciò che viene mostrato è bello da vedere.

Infine, un acrobatico parallelo. In questi giorni ho ripensato al 1975, anno di uscita del magnifico Lo Squalo, di Steven Spielberg. Immaginate cosa avremmo pensato della popolazione di Martha's Vineyard (set del capolavoro), se si fosse rivoltata contro il regista, reo di aver immortalato un mare in cui era pericoloso immergersi. Ebbene, le polemiche sul film di Virzì non somigliano a quella ridicola ipotesi?