Il vetro per la sua possibilità di relazione e interferenza con lo spazio circostante, si sottrae a un'idea di scultura come forma chiusa e autosufficiente, accogliendo una dimensione di apertura spaziale e luminosa. La predilezione di Marchese per questo materiale a partire dagli anni Novanta, ha le sue premesse nella ricerca del decennio precedente, da cui prende avvio l'esposizione, e in senso più ampio nella concezione della scultura come "forma centrifuga" più che "centripeta", come ha scritto l'artista a proposito dell'opera di Medardo Rosso, considerato il suo maestro ideale. Su questi temi abbiamo intervistato Kevin McManus, autore di un saggio pubblicato nel catalogo della mostra riguardante i progetti dell'artista realizzati in spazi pubblici e privati.

"Le sculture realizzate negli anni Ottanta, come "Sviluppo spaziale" o "S.N. 168. Processo liturgico", chiamate anche "Scatole della memoria", introducono il tema della mostra, appartenendo a uno snodo particolare nel percorso dell'artista in cui la scultura si appropria del reale, trasponendolo sul piano del ricordo. Come nascono queste opere e che significato hanno in relazione alla produzione successiva?"
"Le cosiddette "Scatole della memoria" – la definizione è di Vanni Scheiwiller – nascono innanzitutto dall'esigenza, tipica di Marchese, di cambiare periodicamente direzione di ricerca, pur recuperando costantemente quanto fatto in precedenza. Marchese era un uomo positivo e proiettato sul futuro, come dimostra l'entusiasmo con cui si è dedicato a questa mostra, finché le forze l'hanno consentito. Era però anche un uomo che amava i ricordi, e sapeva trasformarli in aneddoti. Le scatole della memoria accolgono la sfida di trattare un tema evanescente e "leggero" come la memoria attraverso un medium come la scultura, apparentemente incongruo. E lo fanno in due modi: da un lato comunicando la funzione del racchiudere, del custodire, che è poi la funzione svolta dalla memoria nei confronti dei singoli ricordi. Dall'altro propongono la figurazione del ricordo attraverso un'incisione sottile e discreta del materiale, che sembra quasi trovare una velatura, una trasparenza dentro l'opacità della scultura. Per questo motivo, anche lavori che non usano il vetro, o lo usano in quantità marginali, risultano coerenti con il titolo e il tema della mostra".

"Come lei sottolinea nel suo saggio, la ricerca di un rapporto con lo spazio dato è fin dall'inizio al centro della ricerca dell'artista e nasce in un contesto storico particolare, caratterizzato dalla ripresa del modello costruttivista. In che senso questo modello ha influito sul linguaggio scultoreo di Marchese?"
"Marchese appartiene a una generazione di scultori che, negli anni degli studi, ha dovuto contribuire alla ridefinizione della scultura, alla ricerca di strade

attraverso le quali ribadirne la dignità in quanto "Lingua viva", per citare il famoso dibattito suscitato da Martini con il suo La scultura lingua morta. Per lui si trattava quindi di trovare per la scultura un modo di recuperare la forza innovativa dell'avanguardia storica, Boccioni innanzitutto, ma anche il Costruttivismo. In Marchese, però, i principi costruttivisti non sono mai presi semplicemente per buoni: il materialismo di fondo che li ispira è sempre visto come uno dei due termini di una dialettica, nella quale la ricerca di una profondità ideale e spirituale è sempre l'esito ricercato".

"La dialettica tra diversi materiali e diverse tecniche di lavorazione, visibile sia nelle sculture a destinazione "urbana" sia in quelle esposte in mostra, al di là di un significato tecnico-operativo, assume una rilevanza poetica nella ricerca dell'artista?
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"Sicuramente sì. Come detto, è innanzitutto la dialettica tra materialismo e spiritualità, tra terra e cielo, se vogliamo. Ma è anche, a un livello differente, la dialettica tra la componente industriale/seriale della scultura, elemento costruttivista che caratterizza molte delle tendenze degli anni Sessanta-Settanta, e l'atto creativo, irripetibile e artistico in senso tradizionale dello "scolpire", del modellare. Per questo molti lavori di Marchese assumono un aspetto decisamente "barocco", anche se con un'accezione del termine che cambia molto a seconda dei periodi della sua produzione. La forma sinuosa, frastagliata che esce dai limiti di una "cornice" sempre molto visibile è proprio l'espressione di questa dialettica tra le limitazioni dell'industria e un desiderio di forma irriducibile ai suoi schemi".

"Le sculture in vetro e metallo realizzate dagli anni Novanta rappresentano un ulteriore momento di riflessione sulle possibilità della scultura, legato anche al mutare della società contemporanea?"
"Con il vetro, sempre articolato in superfici deformate, cambia tutto, specialmente per quanto riguarda la scultura pubblica, o comunque collocata in un contesto specifico. Questi vetri sono schermi, hanno quella relazione problematica con il supporto metallico di cui ho parlato poco fa. Ma il supporto ha anche la funzione di farceli percepire in quanto schermi; schermi che ci mostrano le cose in un modo affascinante e pieno di suggestioni, che è anche, però, la traduzione letterale del vedere mediato che caratterizza il mondo di oggi: sul vetro deformato vediamo, sì, ciò che sta al di là, ma vediamo anche, in punti sempre diversi a seconda del punto di vista, il riflesso di ciò che sta al di qua, e soprattutto il medium stesso nella sua materialità. L'unica immagine che riusciamo a trarne è un'immagine complessa, in cui le tre componenti sono inscindibili".

Marchese. Il vetro che vive
a cura di Elena Pontiggia
Dal 7 giugno al 26 luglio 2013
Milano, Palazzo Lombardia
Piazza città di Lombardia, 1
Orari: da lunedì a venerdì dalle 15.00 alle 19.00
Ingresso libero