Novate Milanese – Il passeggero che da Saronno raggiunge la città con le Ferrovie Nord, si ritrova, dopo una serie di fermate impensate in luoghi sino ad allora sconosciuti, in una stazione di recente costruzione, ben tenuta sebbene piuttosto anonima.

Potremmo essere ad Amburgo o in una cittadina olandese, penso. All’uscita mi assale l’ansia del disorientamento. Chiedo a un passante dove si trovi la Casa di Giovanni Testori e prontamente mi dà le indicazioni e ci appiccica alla fine un sorriso. Cosa strana perché dalla pronuncia non mi pare italiano. Sono i soliti pregiudizi, chiedo perdono. Costeggio un parco pubblico e imbocco il sottopassaggio per recarmi sul lato opposto perché la ferrovia taglia in due la cittadina. Ancora un po’ di verde che costeggia la strada a fianco della strada ferrata e mi appare, come mi era stato indicato, la fabbrica Testori, l’azienda di famiglia, con l’ingresso dalla struttura arrotondata, a mattoni a vista. Lì accanto, come si usava nelle fabbriche lombarde, vi è la residenza della famiglia.

L’entrata è sbarrata da una porta-cancelletto di metallo. Suono e mi viene ad aprire una ragazza alta e graziosa. La guardo e le dico se sono aperti, mi risponde di sì e alla mia perplessità riferita alla porta sbarrata aggiunge con un sorriso che è un fatto normale dal momento che quella è una casa privata. Sì, ma è anche pubblica, penso, visto che si tiene un’esposizione intitolata Fotoromanzo, omaggio all’esistenza per molti versi straordinaria del poliedrico Giovanni Testori (1923-1993), di cui ricorre il centenario della nascita.

Sono l’unico visitatore in questa fredda mattina di vacanze pasquali. Confesso che, al di là della mostra, ciò che più mi attrae è la possibilità di visitare la casa dove Testori ha vissuto quasi tutta la sua vita. In effetti il carattere privato e famigliare domina ovunque, nonostante la risistemazione dei locali ad uso dei visitatori e dell’Archivio qui depositato. Mi inoltro nell’abitazione. Diversi video collocati nelle stanze trasmettono la voce di Testori, così particolare e piena di una vibrazione interna, che a volte tradisce la fatica di collegare il cuore e il cervello; ragione e sentimento, se volete, ossimoro che Giovanni riesce quasi sempre a fondere mirabilmente nella sua voce riconoscibile tra mille per l’impasto vocale. Mi sorprendo a osservare con attenzione i caloriferi d’epoca, i pavimenti originari, la lunga scala che porta al primo piano.

Immagino Testori spostarsi nervosamente da un locale all’altro alla ricerca di qualche testo o di qualche catalogo che non riesce a trovare nel suo tavolo ingombro di volumi. È qui, in questa consuetudine apparente, che si può intuire, non certo definire, lo scarto fra genio e normalità. Da molte finestre si scorge il giardino, pensato da un architetto, deduco, vista la disposizione delle piante e delle aiuole che rispondono a un preciso disegno.

Ci sono parecchie foto che ritraggono la famiglia Testori in quel medesimo giardino, con Giovanni che se ne sta sempre vicino alla mamma Lina, l’affetto più intenso della sua esistenza. Non a caso la mostra Fotoromanzo Testori  inizia con alcune immagini che ritraggono lo scrittore con sua madre, figura chiave nella sua vita, che tante volte torna nelle sue opere letterarie e teatrali. Dalle recenti ricerche archivistiche sono emersi materiali di famiglia sorprendenti, come un album di fotografie scattate il 6 gennaio 1957 a Lasnigo (in provincia di Como), paese natale di Lina. Oltre che dalle fotografie esposte, la vita famigliare è documentata da alcuni video in super 8 proiettati nel salone della Casa. L’immersione è totale e di grande fascino.

La mostra, in prevalenza fotografica è divisa in sezioni. Mi ha interessato quella intitolata “Città culla” legata a doppio filo a Il dio di Roserio e poi al ciclo de “I segreti  di Milano”. Gli scatti fermano lo scrittore in maniche di camicia sul ponte della Ghisolfa e in via Mac Mahon, oppure mentre è in posa tra le case di ringhiera insieme a Franca Valeri, che nel 1960 aveva portato in scena per la prima volta “La Maria Brasca”. Sono i luoghi di periferia che la scrittura ha reso mitici, ma sono anche luoghi reali, a poca distanza da dove mi trovo, bastano poche fermate del treno che scorre a cento metri (ne avverto il passaggio), oppure pochi minuti di auto. Inedite, per quanto ne so, sono le fotografie di Renato Grignani e Giorgio Soavi che ci mostrano l’interno dell’atelier milanese del pittore Testori, situato al numero 8 di via Brera, vale a dire a pochi passi dalla Pinacoteca o dalla fucina di idee d’avanguardia che era allora il Bar Jamaica. Ho solo il tempo per ricordare di sfuggita la parte de “Le mie vacanze”, dove si scopre un Testori “montanaro, in compagnia delle sorelle, dei nipoti e degli amici.

Come si legge nell’opuscolo che fa da guida, la sezione “Mes amis”, che si dipana sulle scale della Casa, è il racconto delle amicizie più care e durature, a partire da quella fondamentale con Roberto Longhi; ma l’elenco degli amici è lungo: Ennio Morlotti, Renato Guttuso, Eduardo De Filippo, Ermanno Olmi, Domenico Porzio, Giorgio Soavi, Ornella Vanoni, Mario Soldati, Alberto Arbasino e l’elenco potrebbe continuare, comprendendo le “Regine”, ossia le attrici che hanno portato in teatro i suoi testi: da Franca Valeri a Rina Morelli, da Pupella Maggio fino a Lilla Brignone e Mariangela Melato, da Luisa Rossi a Francesca Benedetti e Adriana Innocenti. Oltre ad essere testimonianze preziose di legami affettivi e professionali, queste immagini confermano indirettamente la straordinaria capacità dell’intellettuale in grado di utilizzare contemporaneamente più linguaggi (teatro, cinema, pittura), piegandoli di volta in volta alle sue esigenze espressive, e dunque utilizzando all’interno di ogni disciplina (per esempio la scrittura) tipologie e registri differenti, mescolando lingue e dialetti, alto e basso. Il termine di paragone novecentesco può forse essere solo Pasolini, a cui Testori è stato in effetti più volte accostato.

La mostra prosegue al piano superiore della casa, dove si aprono anche degli uffici. A dominare qui è l’impegno teatrale di Testori in qualità di autore, ma anche di scenografo (e costumista) ed attore. Sono gli anni dell’intensa collaborazione con Franco Branciaroli e con Franco Parenti. Getto uno sguardo veloce alle altre stanze, convinto di ritornare ancora e con maggiore agio. Mi preme ricercare un quadro appeso alle pareti che ho studiato di recente, quello per me enigmatico della Crocifissione, dipinto nel 1949. È un quadro potente, non privo di violenza sanguinaria, con in primo piano il sacrificio dell’agnus dei, il capro espiatorio (con tre occhi) sgozzato, secondo l’usanza del vecchio Testamento. E poi attira l’intero spazio dominato dall’horror vacui: qui Testori affolla una sorta di enciclopedia simbolica, con gli evangelisti (ne manca uno, Matteo, ma forse si cela in qualche anfratto bianco), le sette candele, i libri sacri, il divino calice che contiene il sangue della redenzione, la passione di Cristo evocata attraverso altri oggetti (la scala, la pertica con la spugna, la lancia, la croce di spine), secondo un metodo che richiama la poetica di Montale.

In un altro ufficio ritrovo i pugilatori, un ciclo di lavori che affrontano il tema della boxe, lo sport più fisico e violento, dove il sangue e frequente e ogni tanto il velo scuro della morte asciuga il sudore del perdente. Qui sorprende l’uso del colore gettato a spatolate sulla tela o addirittura direttamente col tubetto e poi assemblato con le mani a creare come un bassorilievo, per rendere più vive le pieghe della carne. Dalla finestra sento il rumore di un treno che passa veloce, in direzione di Milano. È anche per me il tempo di raggiungere il capoluogo. Ciao Giovanni, ci rivediamo tra un po’.

Alberto Brambilla