Velate, un nido di case medioevali e di ville della belle epoque, nel verde apparentemente monotono ma intimamente cangiante incanalato tra il fianco del monte di Santa Maria sopra Varese e quello di San Francesco, dove si raccolgono le acque bizzarre e vaghe del Vellone, ricovera, tra l’estate e l’autunno, Renato Guttuso.

Per l’ombrosa piazzetta che si distende dietro l’abside di Santo Stefano, una strada privata, dopo brevissimo giro, porta nel giardino di casa Dotti, dove c’è il suo studio.
Un sito ancor più annidato nell’onnipresente verde, sforato da lunghe vedute sulla luce che viene dal lago, che prende ampio giro dal Rosa, che si affoga nei tramonti incandescenti eruttati dal quieto specchio lacustre.
Silenzio verde di fronde su tronchi intricati che filtrano i tetti vicini; fronde pervie alla luce; l’ampio studio disteso sul declivio dolce del prato, che viene dentro e va fuori per le ampie vetrate. La luce “tutt’altro che anonima, che mi permette di essere eccitato dai miei pensieri, senza portarmi fuori di me” (…)

A me che gli chiedevo quanto importante fosse stata Velate in questi ultimi anni, risponde (….): “Confermo esattamente le cose dette allora” e l’esordio ha il tono di una confessione giurata. “Non solo le confermo ma direi che mentre, quando le ho dette, potevano essere una sensazione, una prima sensazione del contatto con la Lombardia, contatto con la Lombardia da pittore, cioè da persona che ci sta dentro, oggi invece sono coscienza confermata. Io ci sto benissimo.

Come lavoro a Velate non lavoro in nessun posto, neppure a Palermo lavoro così. Palermo è la mia città che amo, il mio paesaggio; il paesaggio dove sono nato, però ha sempre avuto questo potere su di me di….”e s’interrompe per cogliere la parola giusta. Gli suggerisco un “alterare” e riprende “non di alterare, ma insomma… ecco mi provocava a fare quelle cose…fuori” e quel fuori viene soffiato quasi sottovoce, come per non farsi sentire dagli intimi che lo circondano, col ritegno di essere frainteso da Palermo, dai suoi uomini, dai suoi amici di laggiù.

Dunque, Velate, tra il 1953/54 e l’’83: trent’anni di vita e di lavoro. E pensare che nel ’53 al primo incontro, l’intenzione era stata quella di vendere la casa di Mimise per comperarsene una al mare. Poi, quell’atmosfera, quella luce e quell’aria che sembravano anonime, si erano animate e fatte intendere, caricando lui, il pittore che usava fare violenza sulle cose, che di lì a qualche anno, per una via interna, maturata per le sue opere, e fatta maturare per l’ambiente nel quale viveva, e lavorava, esce fuori a dire: “Credo che il progresso del mio lavoro sia cominciato nel momento in cui mi sono staccato dalla volontà di fare violenza sulle cose, e ho cercato di esprimere la violenza delle cose. Questa è l’ultima fase della mia vita, e quindi questa violenza insita, interna alle cose, secondo me ora viene fuori di più. E mi ci abbandono con tutto me stesso”.

Dunque, si può cogliere, nei trent’anni della sua storia, il segno di Velate, l’unghiata sorniona di una tigre sontuosa?
Questo è nei voti; vorrei non trovarmi alla fine, ripetendo il classico motto oraziano: hoc erat in votis, per non venir disarcionato dal lettore al quale sto proponendo una ricerca puntata nel contesto di questi quanta e più pezzi, rari e per la prima volta riuniti per dare volto all’intimo ritratto di Guttuso.

Difatti la scelta delle opere è stata mirata, secondo l’illuminante indicazione di Giovanni Testori, a cogliere questo Guttuso di Velate che da anni ed anni orami qui pensa e dipinge i suoi quadri più noti, quelli ufficiali, quelli illustrati fin dalla stampa periodica di più ampio consumo. Anche la Vucciria è nata qui, lontana dal clamore vociante di quello straordinario mercato palermitano. Ma questi pezzi esposti nella nostra mostra, che sono strettamente complementari dei più noti, che sono intimamente di Guttuso, sono come le sue voci di dentro.

Intanto li hanno visti in pochi; poi sono finiti ben presto in casa di amici collezionisti, gelosi custodi dei pezzi unici. Oggi, nell’esporre tutte queste opere, ci rendiamo ben conto che quest’anima di Guttuso, così intensa, così piena così intima, così struggente, a volte, come quei tramonti del giorno che sentono sempre più del tramonto del nostro giorno terreno, nessuno l’aveva mai vista, goduta, compatita e patita (…)

                                                                                                            

S. Colombo,  Nel segno di Velate, 1984