di Matteo Inzaghi

Qualcuno associa il nome di Bernardo Bertolucci alle atmosfere torbide e sovraccariche di Ultimo Tango a Parigi. Altri, alla miseria sociale immortalata ne La Commare Secca. Qualcuno pensa alla narrazione intensa di Novecento, o alle variopinte, colossali, virtuosistiche scene di massa de L’Ultimo Imperatore.
E potremmo proseguire a lungo nella missione, impossibile, di dare al grande regista, appena scomparso, una chiave di lettura immediatamente identificabile: un’opera, uno stile, un linguaggio che possano definirlo e riassumerlo. Ma non è possibile.
Bertolucci non è l’autore di questo o quel film, né il riferimento di questa o quella corrente: è l’artefice di un’opera omnia che ne individua l’impronta solo se la si osserva interamente, dalla prima all’ultima pellicola, compresi i lavori minori, meno riusciti, meno dibattuti.
Cineasta refrattario alle collocazioni di genere, ha contaminato gli ultimi scampoli di (neo)realismo con delle inconfondibili pennellate degne di un surrealista. Pensate al folgorante finale de Il Conformista, dove la narrazione stessa del ventennio sembra risucchiata in quel gorgo involontariamente mendace che ha imprigionato il protagonista per gran parte della sua vita. Un sogno (un incubo? Un’illusione?) che mette in dubbio l’essenza stessa della più collaudata storiografia nazionale.
Trasfigurazione eguale e contraria a quella dell’ultimo imperatore cinese, costretto a prestare umile servizio in quello che un tempo era il suo regno, assoluto almeno quanto impalpabile.
Cresciuto artisticamente all’ombra di Pasolini, Bertolucci ne ha ereditato le pulsioni poetiche, reincarnandole in un erotismo atavico, spesso morboso, volutamente eccessivo, che sublima l’esistenza nello spazio del coito. Il suo è un Cinema politico, ribelle, ma caratterizzato da una potenza lirica che lo distingue nettamente dal cosiddetto impegno civile tanto in voga a cavallo del Sessantotto.
Valgano, per tutte, due scene emblematiche, ancorate ad un’idea struggente, a tratti disperata, della giovinezza. Da un lato, la ragazza americana che “balla da sola”, circondata da una Natura splendida e asettica e da adulti voraci, consumati, o indifferenti. Dall’altro, la corsa a perdifiato di The Dreamers, immersi in una contestazione di cui respirano e trattengono unicamente il disincanto e il disorientamento.
È il desiderio, con tutte le sue declinazioni, la cifra che più caratterizza il cinema di Bertolucci. Desiderio di piacere, desiderio di vendetta, desiderio di fuga. Aneliti rabbiosamente sfogati e poi subito pagati a caro prezzo, nel nome di un’umanità che perde anche quando vince, che muore anche quando sopravvive e che resta anche quando parte.
A mancarci, del maestro appena scomparso, sarà, prima di tutto, la sua immensa passione nei confronti dell’essere umano, in tutte le sue più fragili declinazioni. Ma anche il coraggio di misurarsi con le cicatrici più profonde della nostra Storia. Quelle che, nel cinema di altri, facevano da sfondo rassicurante e che, nel suo, diventavano segni di dolorosa (in)consapevolezza.