Densa di stratificazioni di senso, allusioni, simbolismi, citazioni e trappole concettuali, la pittura di Alberto Magnani possiede una caratteristica indiscutibile: produce piacere”. E’ con queste parole che presenta l’artista Alessandra Readaelli, curatrice della mostra “empire of things” in corso a Varese, alla Galleria Punto sull’Arte.

Per arrivare a produrre questo piacere e per definire la sua arte Alberto Magnani ha compiuto un lungo percorso: «Ho fatto il liceo artistico di Brera, – racconta – ma lì l’allievo veniva privato della sua libertà espressiva, si subiva l’influsso del professore e del suo gusto. Prevalevano le mode e gli anni ’70 erano molto rivoluzionari, concettuali. Rifiutavano il figurativo. Non era come, ad esempio, in Inghilterra, dove si studiava pittura nel senso più vasto. Ho imparato a dipingere guardando l’opera dei pittori del passato, andando nei musei. Ho studiato, ma non ho mai avuto un maestro. Non ho imparato da nessuno, quindi la mia arte ha dei limiti ma anche il pregio di essere solo mia».».

Si percepisce nelle parole di Magnani, il desiderio di superare i confini dell’Italia.
«Io sono sempre stato interessato al disegno realista. – afferma – Ma era il Periodo Concettuale, secondo il quale l’Arte si fondava più sulla rappresentazione del pensiero e sull’idealizzazione del segno e della forma che sulla riproduzione del reale, uno stile considerato vecchio e superato. Ma non era un “tornare indietro”, bensì un modo di andare avanti recuperando la pittura, il segno, il disegno e il colore».

E allora lo sguardo cerca una risposta alle aspirazioni artistiche personali.
«Ai tempi avevo visto una mostra molto interessante a Milano, alla Rotonda Besana. Per la prima volta arrivavano in Europa gli Iperrealisti americani: venivano tutti dall’esperienza cartellonistica, che era molto diversa da quella europea. I loro erano come dei grandi murales pubblicitari che, una volta progettati, venivano dipinti sui muri ciechi di vecchi palazzi newyorkesi, dove rimanevano per mesi e anche per qualche anno».

«Quegli artisti avevano già “superato” la pubblicità, – ricorda l’artista – stupendo tutto il mondo e la scena dell’arte americana con le loro eccezionali capacità espressive e coloristiche. La Pop Art tornava nel loro lavoro, che rifletteva la vita reale del quotidiano: il bar, la strada illuminata …. In Italia, negli anni ’70, chiamavano questo stile Iperrealismo, ma in America si chiamava Fotorealismo o Superrealismo. E’ venuto dopo la Pop Art ed era basato su delle foto ingigantite e stampate sulla tela emulsionata. Sono delle vere foto in bianco e nero e gli artisti lavoravano con il colore su questa traccia. Naturalmente dovevano essere dei pittori per riuscire a farlo!».

«E’ stato allora che ho capito: per poter essere me stesso dovevo andarmene e, raggiunti gli Stati Uniti, ho trovato un contesto molto fertile per il mio sviluppo. Avevo poco più di 30 anni: l’età in cui non ti fermi lì per sempre, perché hai già la tua formazione. Se vai quando hai 20 anni ti fermi e cerchi di rimanerci, dopo no. Poi io avevo i genitori in Italia e li ho sempre seguiti con grande amore.  Vivevano a Induno e c’era un legame che non si poteva tagliare. E’ forse l’età più prolifica, perché hai già una tua base solida e acquisisci con un giudizio critico: fai una scelta».

«In America sono stato subito apprezzato è il mio dipingere è diventato una professione. Però la mia non è mai stata un’espressione puramente fotografica perché siamo europei e abbiamo un importante bagaglio culturale e una diversa elaborazione del passato, che serve a nutrire il presente».

«Una volta giunto negli Stati Uniti mi ha subito affascinato l’attenzione per l’oggetto “usato”, che era al centro delle opere: vestiti, rifiuti, i vecchi cimiteri di automobili, oggi spariti, ma che allora erano affascinanti, quasi delle montagne di scheletri dove cresceva l’erba. Io guardavo agli oggetti di uso consumistico e trovavo in essi valenze estetiche».

Magnani si trova immerso in un universo artistico affascinante.
«Il bello degli Stati Uniti è che tutte le correnti artistiche convivono e restano attuali, non si scontrano tra loro. Continuano la propria evoluzione e mantengono i propri spazi. E questo è fonte di grande nutrimento per tutti, perché si possono vedere insieme stili del passato e del presente.  I dipinti dei realisti degli anni ’50, che proseguono con la loro pennellata e, subito dopo, una galleria che espone l’avanguardia più assoluta. Si può avere uno sguardo più completo».

«Ho cominciato a ritrarre le balle di stracci: lavoravo in una ditta come grafico e lì arrivavano queste balle di pezzi di stoffa per pulire i macchinari, avvolte nel fil di ferro. Io dipingevo e, facendo esperienza, ho messo a punto una mia tecnica realistica».

Allo sguardo si somma la comprensione che sono in corso dei cambiamenti socio-economici. «Bisogna ricordare che in quegli anni era molto forte la tematica del consumismo, che poi si è spenta ed è stata ripresa oggi, ma in modo diverso. Eppure è allora che è nata la Critica al Consumismo, che cresceva in parallelo al fenomeno stesso. Cresceva anche la contraddizione per cui più si criticava, più si consumava».

Ma perché questa fascinazione per gli stracci?
«Lo straccio mi ricordava il vestito usato dell’uomo che trattiene la sua anima, il suo vissuto e poi viene buttato. Un po’ come succede a noi esseri umani: veniamo usati durante la vita, per poi essere scartati quando non serviamo più. Naturalmente dipende dalla persona: se la sua creatività continua con la sua intelligenza, in realtà non muore mai. Ma se gli individui non hanno una vera identità, un vero talento e orientamento culturale e seguono l’onda, allora diventano come la mia balla di stracci: ridotti a un agglomerato anonimo, amorfo».

E qui entrano in gioco l’arte e l’abilità pittorica di Magnani.
«Essendo un pittore e un esteta, vedevo una grande bellezza in queste balle, perché erano come delle sculture legate con i fili di ferro, con rigonfiamenti e imprevisti accostamenti di tessuti e colori, che sembravano voluti. e non mi sono fermato a questo. Dopo avere riprodotto l’oggetto usato, sono andato alla sua origine, per vederlo ancora “in uso” e per poi indagare il concetto del Vuoto, dell’assenza, che era quello che mi interessava: il sacchetto vuoto che racchiude una vita … ».

«Negli Stati Uniti si continuano a usare i sacchetti di carta marroni, che sono molto affascinanti. Non si guardano mai, ma se li schiacci racchiudono rughe, pieghe e ombre che prendono la luce in modo particolare. Ne ho dipinti tanti».

«Poi ho scelto di raffigurare l’abito, la camicia, ma non come Moda, bensì per il suo simbolismo: il vestito ti accoglie, ti protegge, ti dà l’identità che cerchi. C’è il narcisismo, c’è una protezione, c’è un mascheramento. L’abito ha grandi potenzialità, trasmette molti messaggi o non ne trasmette alcuno, è anonimo. Ha un grande potere. Nelle mie opere non c’è mai l’essere umano: di lui resta solo una traccia. Il vestito è una traccia».

«Accade anche con la camicia che è vuota, ma si riempie d’aria, di forme, di colore, è appesa sulla gruccia … in essa si vede l’essere umano, ma nella sua assenza, nel suo essere quasi un fantasma. E’, però, un fantasma affascinante, perché c’è il colore, ci sono le righe …  Da questo è nato il mio stile espressivo: rappresento il vuoto che lascia l’essere umano nell’uso dei suoi oggetti, in particolare l’abito. Naturalmente ci sono molte “infiltrazioni” in quest’idea, perché noi siamo italiani e abbiamo alle spalle una tradizione molto importante. Penso, ad esempio, al Rinascimento, dove i panneggi sono quasi più importanti del volto dei personaggi».

«Come afferma Alessandra Redaelli, nei nostri pittori c’è sempre un riferimento inconscio al passato, anche nell’amore per il colore. Io, ad esempio, non amo indosare capi colorati, ma devo usare il colore nei miei dipinti».
Parlando dei vivaci accordi cromatici delle opere di Magnani la Redaelli, nell’introduzione del catalogo della mostra, scrive: “si prova quasi la sensazione di avvertire sulla lingua il gusto pungente del fucsia che sa di lampone,… la consistenza pannosa del bianco, il brivido esotico del mango nel giallo caldo e il retrogusto acidulo nel rosso fragola”.

E’ un percorso affascinante quello che compiamo con Alberto Magnani, una vita tra due realtà che costituiscono il background della sua opera. «L’America e l’Italia erano due mondi diversi. – sottolinea – Uno compensava l’altro. Con il tempo si raggiunge un equilibrio un po’ stressante, ma anche molto eccitante e nutriente dal punto di vista artistico: New York ti satura perché è una città piena di stimoli, di avvenimenti, di cose da vedere e da fare. Ma il nostro cervello e la nostra emotività hanno dei confini e allora, quando tornavo in Italia dai miei, era quasi un digerire ed elaborare quello che avevo vissuto in America. Ritrovavo il verde, la tranquillità, gli amici. Poi mi tornava la voglia di essere a New York».

La permanenza negli Stati Uniti ha permesso a Magnani di vendere i dipinti.
«In America è presto nato un mercato collezionistico delle mie opere, che sono state esposte in galleria. L’esperienza dell’esporre mi ha fatto crescere come artista. La mia prima gallerista aveva studiato in Italia e aveva fatto una tesi sulla pittura del Rinascimento.
Ho una grande riconoscenza per il collezionista, perché porta a casa qualcosa che io ho trasmesso, un pezzetto di me. E lo fa attraverso il denaro, che poi mi permette di continuare a dipingere. E’ bello sapere che i miei quadri girano per il mondo, vanno lontano. Anche se non li vedo più, non importa, – dice con un sorriso – perché l’arte deve andare, deve uscire dal tuo studio. Se io avessi ancora tutti i quadri che ho dipinto impazzirei! Sarebbe come riflettersi nello specchio tutto il giorno. Alla fine ti odi!».

Essere nella Grande Mela ha permesso al nostro artista di fare grandi incontri.
«Per scoprire nuovi oggetti andavo tutti i fine settimana nei mercatini che si svolgevano a New York: era come andare a rilassarsi, a vedere un’umanità che non vedi durante la settimana. Potevi trovare delle cose meravigliose e delle cose tanto pacchiane, da essere inimmaginabili. Trovavi tutto il mondo, rappresentato dagli oggetti consumati dagli esseri umani. Per me era un godimento incredibile, più che andare a teatro».

Ed ecco la sorpresa per gli amanti della Pop Art: «Ho visto molte volte Andy Warhol che frugava tra i banchi: lui era un amante delle cose da rigattieri. Faceva parte di un settore molto intellettuale, che allora non mi interessava, ma guardandolo adesso ho capito che ha saputo dare al pubblico quello che voleva. Tu vuoi che io rappresenti la tua mediocrità e la tragedia di un mondo che non vuoi vedere? Eccola! sembrava dire. Warhol ha realizzato una serie di dipinti molto scottanti dedicati alla sedia elettrica. Poi ha scelto gli oggetti più assurdi, ha ritratto i travestiti e transessuali, toccando dei temi molto forti, che potevano disturbare i benpensanti e ricco-borghesi, ma li stimolavano attraverso una visione figurativa molto stimolante e seriabile, come accadeva con i suoi lavori».

«Poi è stata la volta dei ritratti dei divi. Ha sfondato le porte perché tutti i narcisi di allora volevano un ritratto di Andy Warhol. Una volta ho visitato una sua grande mostra e dapprima ho pensato “che noia, sono tutti uguali!”,  poi ho osservato meglio e ho compreso la genialità della sua idea: “io ti critico. Tu vuoi questo? E io te lo faccio, perché a me interessa il denaro”. Diceva che per lui i soldi erano l’unica cosa importante. Ma era una difesa. C’erano in mostra Marilyn Monroe, Elisabeth Taylor, tanti imprenditori, vip della moda, magari non conosciuti oltre New York.  Tutti erano pieni di sé, “sono qui – sembrava dicessero – mi sono fatto fare il ritratto da Andy Warhol”. E lui aveva raggiunto il tuo scopo, adesso ti rappresento come sei:  narcisista, esibizionista, eccetera eccetera.
E allora ho pensato: chapeau, ha avuto il coraggio di dimostrare alla Società com’era, senza che nessuno lo capisse.Vuoi lo specchio per rifletterti? E io te lo dò, ma a modo mio
. Andy Warhol era questo, era un personaggio algido che indossava sempre una maschera, non si capiva mai cosa pensasse. Era un modo per difendersi, perché era molto timido e chiuso».

Anche se ora Alberto Magnani trascorre lunghi periodi a Varese – ormai anche in Italia ci sono tanti mercatini dell’usato! – ama frequentare la vivacità di New York.
«Ogni volta mi piace tornare negli stessi posti, nelle stesse strade, che pure continuano a cambiare. Lo scenario è sempre attuale, tragico, intenso, altamente intellettuale o bassamente mediocre. Sono molto grato del fatto che mi sia rimasta la capacità di guardare: bisogna fermarsi sulle cose, sulle persone, sui palazzi, sui dettagli …. Non si finisce mai di stupirsi e di divertirsi: la vita è un teatro per il quale non devi pagare il biglietto! Mi piace osservare la gente, soprattutto sulla Subway, la metropolitana, che è la vita pulsante della città».

Proseguendo il suo percorso artistico Magnani è entrato in una fase espressiva.
«Prima  ho portanto avanti il discorso degli abiti e diventando anche ironico. Ho fatto delle composizioni che giocano sulle forme delle cravatte, sulle spirali. Ho provato degli accostamenti sia disordinati che molto classici. Ed è stato bello. Ho dipinto l’abbigliamento maschile perché è un po’ cosmico, una divisa».

Poi nuovi oggetti hanno invaso le sue tele: l’occhio del pittore ha connesso quello che vedeva con quello che è già dentro di sé:  i vuoti.

«La maschera che dipingo oggi è un vuoto, il casco è un vuoto …  li ho visti vicino e ho pensato: guarda che strano, si assomigliano! Hanno la stessa forma ovale, ancestrale, che ricorda un volto. Il casco si mette sul capo, ma sembra una maschera da guerra, una protezione del viso con delle feritoie medievali.

 

E la fantasia va a mille, perché si ricollega sempre alla tua esperienza culturale, visiva, dei musei, degli oggetti … io poi ho sempre amato le maschere africane, che ho visto a New York in grandi collezioni e nella sezione di arte oceanica e africana del Metropolitan Museum. Ti immergi in quelle forme, e poi esci dalla sala e  vedi i romani e i greci. Vedi i volti, ma interpretati in un altro modo: è bellissimo!».

E poi ci sono le cornici vuote.
«Le avevo già dipinte alcuni anni fa, ma spesso le idee sono sempre più veloci della mano, per cui le avevo accantonate. Le ho riprese perché ho vissuto un momento di stasi e mi sentivo in sintonia con il loro equilibrio instabile, addossata l’una all’altra.

C’è poi anche il rimando al trompe l’oeil ottocentesco, specialmente nordico o francese. Il retro del quadro, la cornice vuota con un bigliettino inchiodato sul muro … allora cerco di prendere l’emozione di una cosa già esistente, però riadattandola all’oggi.  E’ quasi un disequilibrio, una mancanza di equilibrio. Sono un punto di domanda,  un vuoto che attende, una stasi, un riposo del guerriero».

E così Alberto Magnani continua a guardare il mondo.

“empire of things” di Alberto Magnani
Punto sull’Arte di Sofia Macchi, Viale Sant’Antonio 59/61, Varese
+39 0332 320990/info@puntosullarte.it/www.puntosullarte.it
Fino al 29 settembre
Martedì – Sabato: 10-13/15-19
Catalogo a cura di Punto sull’Arte, con testo critico di Alessandra Redaelli.

Chiara Ambrosioni