Il titolo è un gioco di citazioni che ci sembra si adatti in pieno ad Agnetti, mutuato dalla famosa affermazione di Sant’Agostino sul tempo: ” Io so cos’è ma quando me lo chiedono non so spiegarlo” e dal titolo di una delle opere di Agnetti più conosciute “Autoritratto”, un feltro grigio inciso a fuoco e colorato sul quale campeggiano queste parole: “Quando mi vidi non c’ero”.
Agnetti, e chi visiterà la mostra potrà rendersene conto, è un personaggio particolare, visionario, critico del potere (“strumentalizzare la disciplina… fino a cancellarne la struttura”), alla ricerca di un linguaggio destinato a superare i canoni consueti della parola scritta, orientato verso un “oltranza”, come direbbe Testori, che spiazza e fa riflettere.
Insomma, con Agnetti entriamo a pieno titolo nel concettualismo, anche se è utile fare una distinzione perché la cosiddetta “conceptual art” aspira a una conoscenza attraverso il pensiero anziché l’immagine e il veicolo del pensiero sono le parole. Agnetti non si ferma alle parole (“Una parola vale l’altra. Ma tutte tendono all’ambiguità”). Porta la sua indagine più avanti: gli aspetti semiologici del testo non gli bastano. Trasforma le parole in numeri per cogliere il ritmo, l’intonazione del discorso, dimenticando il significato. Vuole, cioè, creare dei cortocircuiti interpretativi in chi vede le sue opere. Far riflettere, dubitare, reagire.
La Mostra il cui titolo è “Agnetti. A cent’anni da adesso”, promossa e prodotta dal Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e Archivio Vincenzo Agnetti è l’occasione per avvicinarsi a questo artista un po’ dimenticato, morto a 54 anni nel 1981, che ha realizzato molto, anche scrivendo (pochi lo sanno ma scrisse anche un romanzo intitolato”Obsoleto”) e collaborando con altri artisti come Manzoni, Castellani, Melotti, Claudio Parmeggiani, Gianni Colombo e Paolo Scheggi.
Come non ricordare, almeno en passant, anche i suoi esperimenti sul suono, con l’invenzione di uno strumento che permette di ascoltare il “negativo” della musica (chiamato proprio per questo motivo “Neg”) e scoprire quello che lui chiama il “suono bianco”. Cosa che accade anche con un oratore, perché con tale strumento potremmo essere in grado di percepire solo il suono bianco nel momento in cui tace. (“A volte la pausa, la punteggiatura è realizzata dalle immagini, a volte è invece la scrittura stessa”)
Ma torniamo alla mostra. Le opere esposte, oltre cento, sono quelle realizzate nel periodo che va dal 1967 al 1981. Nelle sale, tra i lavori più noti, ricordiamo “Gli Assiomi”, bacheliti nere incise con colore a nitro bianco, “Il Libro dimenticato a Memoria”, che riflette sul problema dell’oblio e della memoria (“la cultura è l’apprendimento del dimenticare”), e la famosa “Macchina Drogata”, una calcolatrice Divisumma 14 della Olivetti alla quale i numeri sono stati sostituiti da lettere dell’alfabeto che anziché calcoli produce parole senza senso che pure possono essere pronunciate, visto che si prevede un’alternanza tra consonanti e vocali.
Altri interessanti stimoli ci vengono dalla stanza dedicata all’Amleto politico, dove su un palco chi si immagina arringhi la folla del mondo, lo fa scandendo numeri anziché parole, circondato da 60 bandiere di tutte le nazioni. Agnetti fece anche molto uso della macchina fotografica come nella famosa sequenza “l’Autotelefonata” e altri lavori da lui definiti “Photo-graffie”, perché si tratta di carte fotografiche esposte alla luce e graffiate.
Per capire Agnetti, bisogna cercare di capire anzitutto cosa lui intenda per arte. Il che è tutt’altro che facile. Per cominciare ad avvicinarsi a questo artista, dobbiamo partire dall’idea che per lui l’arte non è semplice rappresentazione ma un’operazione complessa, di sintesi, tra soggettività, coscienza e fare. Il resto può essere lasciato al nostro intuito che certe volte sa guidarci meglio della ragione.
 

Ugo Perugini