Mendrisio – Ancora Picasso? Sì, ma non con una delle tante mostre che ormai ogni museo sente l’obbligo di fare; invece una mostra mirata a far apprezzare la sua incredibile attività grafica, unica protagonista della rassegna che ha in più il valore aggiunto di presentare accanto i raffinati e poetici bulini dell’artista svizzero Markus Raetz (Berna, 1941-2020). E proprio da questa figura sarà bene incominciare anche perché Raetz può essere almeno per l’Italia una sorpresa visto che non fu assiduo ad esporvi almeno in sedi ufficiali (alla Biennale di Venezia solo nel 1988, nel padiglione svizzero) e solo pochi estimatori dell’arte grafica nostrani hanno collezionato i suoi fogli.

M. Raetz, Due poli (1994-1995)

Felice dunque l’occasione offerta dal Museo di Mendrisio di far conoscere, anzi rivelare, le incisioni a bulino che Raetz realizzò, instancabile, dal 1994 al 2017. Il bulino – si sa – è tra le più raffinate tecniche della grafica, laboriosa e complessa da compiere, dove proprio non si può sbagliare, la mano ferma sull’asticciola con la punta tagliente all’estremità. Markus Raetz nella sua sterminata produzione, fra opere tridimensionali (alcune esposte) e disegni – 35.000! – volle appunto sperimentare in novanta esempi questa tecnica alla quale tanto si appassionò non solo ideando il disegno, ma, come un antico maestro, anche sculpsit, cioè lo realizzò e completò fino alla stampa, dunque a nessun altro affidando la sua definitiva realizzazione. I fogli di Raetz non hanno grandi dimensioni ma in essi quanta ricchezza d’invenzione, quanta poesia e che grande capacità elaborativa!

Pertinente esporre ad incipit del percorso espositivo un disegno del 1973 dove l’acconciatura a riccioli di una donna con tre diversi passaggi è diventata un’onda generante altre onde, tutte differenti a dimostrare la varietà delle cose e del mondo. Straordinaria la sequenza dei fogli intitolati Due poli dove grazie ad una elaborazione intensa e complessa si passa da radi, minuti segni ad un magma ribollente di forme, ad un mondo sconfinato al di fuori da ogi referenzialità d’immagine.

M. Raetz, Occhio (1995)

Raetz fu coinvolto dalle avanguardie del suo tempo, ma “con juicio”; colse quello che alla sua sensibilità sembrava conveniente, e coerente, e non fanno una piega in tal senso i riferimenti a Man Ray e a Meret Oppenheim dalla quale riprese e interpretò sagacemente l’Occhio di Monna Lisa. Un occhio che indaga con sguardo lungo e intenso fino alle infinite possibilità dell’essere.

P. Picasso, Vénus et l’Amour (1949)

Nel nitore delle sale del Museo di Mendrisio si squaderna poi l’infinita varietà della grafica di Picasso: “poliedrica, eretica e geniale”, come Matthias Frehner intitola il suo saggio in catalogo (Edizioni Casagrande, Bellinzona). Concessi dalla Fondazione Gottfried Keller-Donazione Georges sono più di 150 i fogli esposti, a partire da uno del 1899, quando l’artista aveva 18 anni, fino agli ultimi, di poco prima della scomparsa avvenuta nel 1973. Riflessi nella sua inesauribile ricerca artistica documentano in modo perfetto e coerente tutta l’intensa sua esistenza. Memorabili i ritratti esposti nel salone dove si avvia la rassegna: quelli delle donne amate (tante!), dei figli Paloma e Claude, degli amici (Kahnweiler e Crommelynck, il prediletto incisore). Come tutti gli altri lavori in mostra appaiono testimonianze più che persuasive delle sue ricerche tecniche, esaltate ora dalle affilate linee della litografia, ora dall’opulenza della linoleografia e dei segni incisivi e profondi delle acqueforti, ma non meno, anzi!, essi diventano testimonianze esaltanti delle sue passioni e del suo modo di vedere la realtà.

P. Picasso, La colombe (1949)

Con l’acquaforte Picasso realizzò le energiche scene erotiche accostabili a quelle, irruente, della tauromachia e della corrida assunte a simbolo della perenne lotta dell’uomo contro il sonno della ragione, sempre a favore della vita. Una vita da Picasso esaltata e vissuta fino all’ultimo respiro, fra inquietudini, dolori e speranze. Quella speranza portata dalla colomba incisa nel 1949 per il Congresso della Pace di Parigi con intensità convinta e vibrante poesia tanto da renderla messaggio universale e perenne. Oggi più che mai.

Giuseppe Pacciarotti