Una grande scrittrice che ha usato la parola in ogni modo possibile. Lei scriveva per vivere, che fossero romanzi, poesie, racconti, non importava: per lei scrivere era essenziale. Essere una scrittrice era il suo sogno più grande e qualsiasi ostacolo a questo era per lei un’intollerabile ingiustizia. Una poetessa associata al grande poeta di Recanati, Leopardi, e che tutti i grandi scrittori hanno omaggiato ma di cui oggi si parla sempre meno: Anna Maria Ortese, l’autrice de Il mare non bagna Napoli e Il porto di Toledo, una poetessa dall’anima fragile, con il passato difficile e un sogno da realizzare. 

Nasce a Roma nel 1914 e si trasferisce presto, la sua casa sarà per tanti anni Napoli, poi Milano e infine la Liguria, dove vivrà gli ultimi anni della sua vita. Anna Maria Ortese ha cinque fratelli e una sorella, Maria, con cui ha tentato, per tutta la vita, di costruire quel senso di famiglia e calore umano che in realtà non le è mai riuscito particolarmente facile.
Tutta la sua vita è stata accompagnata dalla poesia, ha iniziato scrivendo nel suo quaderno di  «espressioni ritmate», le chiama proprio così. Scrive difatti nell’introduzione a Il mio paese è la notte: «Il motivo per cui le ho conservate tutte, credo che sta in questo: che dal lontanissimo ’32-’34 hanno accompagnato tutte le stagioni, o quasi, della mia vita».

La poesia è qualcosa che accompagna ogni momento della sua vita, dalla morte del fratello che le lascerà un grande vuoto che ha cercato di colmare con le parole. Nei suoi stessi libri inserisce le poesie, ne parla, le spiega. Vediamo dunque che cosa scriveva nel suo romanzo Il porto di Toledo:

Primavera ben presto
sarà fra noi; le sere
s’allungheranno tiepide e una grande
luce vedrai
nelle finestre limpide fiammare.
Barche andranno nel lieve scintillìo
dei remi sopra l’acqua
morbide; e qua cantare
sentirai, nella piazza alta i fanciulli
grideranno. Stupore
ti prenderà, mio cuore.
lo starò sopra questo
tenero davanzale, e lenta arcana
mi tornerà memoria
d’altre sere, e la storia
grande vedrò, smarrita come il mare.
Questa la primavera? E i miei capelli
già lievemente splendono al soave
tocco del tempo, e il viso
già i segni porta, mesti, di bufera.
Presto la luna splenderà frattanto
sopra l’onde serene,
rivelando le barche ed una strada
dorata in mezzo del celeste mare.
E tu più forte udrai
al ballo i passi delle giovanette,
dentro le buie camere da festa
travolte e più gridare
con i fanciulli sentirai le rondini.
Tu starai sola in casa, e la memoria
ti assalirà, dipinta di stupore,
d’altre sere beate.
Che tempo fu? Che strano
paradiso mai quello?
Ricorderai tu, lenta,
mentre la festa aumenta e nelle case
scopre la luna il viso alle fanciulle,
i suoi labili accenti,
gli occhi che ti miravano contenti.
Strana bene è la vita,
reprimendo i lamenti,
e mirando la gran festa, dirai.
E un po’ sarai turbata, quella sera
che già s’accosta, della primavera.

Anna Maria Ortese mette se stessa in tutto quello che scrive, ogni sua opera è un’autobiografia, ogni poesia parla di lei, ma della sua interiorità: descrive i suoi sentimenti, cosa succedeva dentro di lei in quel momento storico, in quella Napoli che amava tanto quanto odiava, che le aveva dato tutto che poi gliel’aveva tolto. Difatti questa poetessa non viveva nella realtà, non voleva viverci, la realtà era per lei soltanto inganno, l’unica cosa reale erano l’immaginazione e i ricordi, ed è questo il mondo in cui lei vive.

Dunque, il male è passato?
Dunque, non più nel cuore
ritroverò la barbara dolcezza
di un suo sguardo, l’angoscia
di un suo sguardo, l’incanto
che mi faceva bianca trasalire
d’una parola, fosse anche di scherno?
e quell’amato inferno
è scolorito? e viene
la pace? Oh, desolati
giorni! Non voglio, io, pace,
io non voglio destarmi e ritrovare
solo l’orme del male. Ancora voglio
(s’io posso, e piango) il disperato ansare
della tortura, il grido
mio disperato, e il docile guardare
ad i passi del mio torturatore.
Ricchezza trafugata,
che mi beavi, come sei lontana?
E che resta alla mia
giornata eterna, senza male, piana?

Anna Maria Ortese era una donna anticonformista, riservata e contro ogni compromesso. Era una donna che vedeva la realtà per quello che era ma non la accettava, una realtà in cui lei, che voleva soltanto vivere facendo la scrittrice, ha dovuto fare tutta quella fatica, la stessa fatica che faceva una bambina ad andare a scuola e avere un’istruzione decente, la stessa fatica che facevano i genitori quando, sempre più poveri, cercavano di fare tutto il possibile per non farle mancare niente. Allora Anna Maria diventa Damasa, una tredicenne che non sa il nome delle cose e non conosce il tempo ne Il porto di Toledo e assume un nome e un volto diverso in ogni opera dell’autrice, in cui l’unica cosa che resta immutata sono i suoi pensieri, sentimenti, sensazioni, ideali, ma per tutto il resto si affida ad una regola inaccettabile: guardare la realtà con gli occhi altrui, come gli occhi di Damasa che guardavano dalla stanza dell’angolo una grande nuvola rossa nel porto di Napoli

La nuvola ricordo / che mi guardava a sera
rossa vanendo. Dissi: / «Nuvola, così era
per me una volta. Rossa / nuvola nella sera
guardavo e non sapevo, / credevo quell’aurora
interminata. L’ora / venne per me. Che fai,
che aspetti, o solitaria / nuvola in cielo? Un attimo
trascorre, e più non sei / di quell’intatto rosa
ch’io seppi, famosa / felicità di un solo
attimo, non ricordo / quando, in che cielo.
O nuvola, non piangi / tu di spavento a entrare
nel vuoto lilla blu, / nel nero cielo? Sei
tu così bella, e passi. / O nuvola, non piangere,
ti prego, non sciupare / ribellandoti questa
necessità: passare».
Ma nuvola, del tuo / colore mi ricordo,
della disperazione / in accennata, il rosso
tuo colore ricordo. / lo prego che ti basti.
Che ti ricordi prego, / creatura sovrumana,
della mia pena strana / dissolvendo ti, e ancora
nel viola agonizzando. / Com’era bello il rosso,
e lo perdemmo. È vano / l’interrogare. Passa
l’umano, e l’inumano / lo segue. Passa
ogni cielo: stregati / stanno cieli non veri.
«O nuvola mia vera» / dissi «perciò non piangere,
ché un altro cielo deve, un’altra patria esistere.»

L’immagine che da di se è di una bambina, poi ragazza, illetterata e ingenua, ma nella sua vita si era appassionata a libri importanti, aveva sviluppato una grande coscienza sociale, aveva idee chiare sulla pena di morte, sulla sorte degli animali e delle creature viventi in genere e non aspettava a dirle.

Anna Maria Ortese è stata una poetessa che ha incontrato la solitudine, quella dell’anima, una poetessa che il deserto l’ha conosciuto davvero e poi ha conosciuto Napoli, i colori e i suoni e l’ha amato. Ha odiato la condizione in cui una ragazza, un’intellettuale, una scrittrice doveva vivere. Quindi ha lasciato il suo mondo e ha incontrato Milano ma l’estraneità di quel mondo l’ha portata in Liguria e li ha vissuto gli ultimi anni della sua vita, da una casa da cui poteva almeno vedere il mare, lo stesso della sua casa povera ma piena d’amore che aveva a Napoli

Veronica Pagin