Milano – In questi giorni di pazzo inverno si potrebbe andare al Palazzo Reale  per vedere la mostra dei quindici La Tour lì riuniti con una ventina di lavori di artisti coevi, tutti interessati al “lumen et umbra” e così si incontrano anche Frans Hals, Gherardo delle Notti, il Bigot e fin il nostro naturalista romano Carlo Saraceni. Aperta fino al 7 giugno, la mostra, curata da Francesca Cappelletti e Thomas Clement Salomon, è stata proposta e voluta dal Comune di Milano (e il sindaco Sala sottolinea in catalogo come ormai Palazzo Reale sia diventato un “polo espositivo e di ricerca sempre più accreditato”) e da MondoMostre Skira, avvalendosi di un allestimento, curato da Pier Luigi Cerri, in forte penombra da dove emergono le opere, quasi tutte notturne, rischiarate con magico virtuosismo dalla luce di una candela.
Si potrebbe riscrivere a questo punto quel che scrisse Roberto Longhi nel lontano 1935 quando a Parigi si aprì la mostra dei “Peintres de la Realité”: “In questi giorni se ne leggono delle apologie ingegnosissime. Lei dovrebbe vederlo! È un pittore sorprendente. Non abbiamo strumenti per misurarne il genio; ma sento che il talento del De la Tour spezzerebbe più di un manometro…”. Fu poi sempre Longhi a far conoscere tre opere del maestro di Lunéville nel 1951, portandole alla leggendaria “Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi” tenutasi proprio a Palazzo Reale, e a scrivere sul catalogo che Georges de La Tour appariva “un caso così affascinante e anacronistico”.
Parole che valgono ancora oggi per questo artista dalla evanescente vicenda biografica (ma si sa che nacque a Vic-sur-Seille, in Lorena, nel 1593 e che morì a Lunéville nel 1652) che non consente di stabilire i suoi viaggi “per vedere”: molto in dubbio Roma, e dunque la visione diretta delle opere di Caravaggio con cui ebbe in comune la ricerca del vero e della luce; più probabili le Fiandre, non poi così lontane dalla Lorena; certa Parigi dove diventò “peintre ordinaire du Roi” , a quei tempi Luigi XIII. Eppure quanto si faceva lontano dalla sua terra lo conobbe, eccome, salvo poi fare di testa sua, declinando siffatte esperienze in modo autonomo, assolutamente personale, e applicandosi a rendere con la luce creata dal tremulo lume di una candela un mondo di implacabile realtà tuttavia non priva di ambiguità.
In apertura della mostra viene subito incontro la parata incomparabile degli “Apostoli di Albi” dove si avverte la distanza fra i suoi, così umili, così silenti e con gli sguardi a terra, e quelli pieni di vita pur se altrettanto antieroici di Frans Hals. E poi, di sala in sala, ecco la vita misera dei mendicanti e dei giocatori di dadi, tuttavia affrontata con l’identica tensione riservata a un soggetto religioso, opere spoglie, essenziali, sempre dentro un’atmosfera “diversa”, densa di silenzi e di tenebre che solo un gran regista è capace di rischiarare appena con una candela appoggiata sulla tavola. Spiccano anche le tele dei due “Vecchi”, uomo e donna, o del “Suonatore di ghironda” col suo bastardino accucciato ai piedi, figure davvero monumentali che si ergono a testimoni di assoluta dignità e di forza morale. Un capolavoro di efficacia realistica e di trattamento chiaroscurale il “Giovane che soffia su un tizzone”, sapientemente accostato in mostra all’ “Educazione della Vergine” dove dalle tenebre emergono in contemplativa serenità una mamma e una figlia vestite proprio come gli abitanti di Lunéville nel Seicento, nessuna aureola ad aleggiare sopra il loro capo.
Di tela in tela si va verso la conclusione della rassegna incontrando il “San Sebastiano curato da Sant’Irene”, lui un giovane gracile e per nulla sensuale, lei quasi una dama della corte del duca Enrico di Lorena che amava soggiornare a Lunéville, almeno quando non era messa a sacco, e si arriva al “San Giovanni nel deserto” del museo di Vic-sur-Seille, il paese natale di La Tour. In questo quadro il pittore sembra voler rinunciare a tutto: ambientazione, colore, fin alla “sua” luce di candela; in un silenzio arcano il santo, carico di pensieri, offre con gesto lento qualche festuca di paglia all’agnello. Intorno il nulla. Vedendolo mi son venute alla mente le note dell’Andante della Sonata 960 di Schubert. Sono andato a casa a risentirle: vero, in entrambi una sospensione profonda e tutta interiore, in attesa dell’assoluto.

Giuseppe Pacciarotti