Mendrisio – È sempre bello, lasciati alle spalle casinò e sfacciati centri commerciali, arrivare nel cuore di Mendrisio e a quello che fu il convento dei Serviti, oggi sede discreta e opportuna del Museo d’arte. Museo dove si continuano a organizzare mostre su temi o artisti non consueti, scansando saggiamente famosi impressionisti e post che, riprendendo il “Così fan tutte” di Mozart, sono diventati ormai “cose note, cose note”.

Per quest’autunno, e fino al 26 gennaio 2020, è stata predisposta ad esempio una raffinata mostra che intende rivelare i capolavori dell’“India antica” conservati in segrete raccolte sparse fra i cantoni della Svizzera.
Non è necessario essere esperti dell’arte indiana per rendersi conto, subito, della qualità molto alta delle opere scelte ed esposte: sessantasette, dal II secolo a. C. al XII d. C. Certo, occorrerebbe un po’ più di conoscenza da parte nostra dell’arte di queste lontane regioni per potersi così addentrare in un mondo estremamente fertile di storie e di leggende scaturite da tre religioni diverse – induismo, buddismo, giainismo – e per cogliere, se non in tutto almeno in parte, il loro arcano significato.
Queste sculture, create in materiali che a noi occidentali sembrano poveri (terracotta, arenaria, stucco, scisto, pietra grigia; il bronzo solo tardi) hanno un profondo legame con la religione a cui si uniscono in modi inscindibili. L’artista indiano, quasi un saggio o un mistico, prima di creare doveva meditare a fondo e solo quando l’ispirazione lo aveva preso poteva esprimere il mondo superiore degli dei e di chi sta loro vicino, diventando testimone dell’essenza degli eventi miracolosi e memorabili della vita di Siddartha, il futuro Budda, o di Visnù, venerata divinità del pantheon induista. Allora l’artista riusciva a modellare e creare monumentali figure di dei, serene e distanti, quasi impersonali, eppure cariche di sublime energia, o, espresso su pilastri o balaustre a recinzione dei templi, un profluvio di immagini che si susseguono ed entrano una nell’altra in una fluente sinfonia dove comunque mai la decorazione è fine a se stessa.
Le opere riunite a Mendrisio da un profondo conoscitore dell’arte indiana quale è Christian Luczanits, a noi sono giunte solo come frammenti mentre occorrerebbe pensarle parte di contesti monumentali – templi, santuari, monasteri – di ardua complessità architettonica, posti su roccioni isolati e slanciati verso il cielo, costruzioni che intravvediamo trasfigurate nei quadri carichi di simboli e allusioni dipinti da Gustave Moreau che in India non andò mai, ma poté conoscere l’arte di quella vastissima regione visitando le sale del Musée Guimet a Parigi. Oggi a quest’arte non ci si può certo avvicinare con lo spirito di evasione di codesto pittore; qualcosa di più, e di più profondo, sappiamo della spiritualità e della filosofia di quelle genti e la poesia del bengalese Tagore o anche la musica di Ravi Shankar ci hanno fatto intendere il suo senso distante dalla soggettività e la sua tensione bramosa di avvicinarsi alla bellezza propria delle divinità. Ammirando le sculture disposte molto bene nelle spoglie e silenziose sale del Museo di Mendrisio noi non possiamo non accorgerci di tutta questa ricerca e ci emozioniamo appagandoci dell’armonia silente e vitale che esse sprigionano.

Giuseppe Pacciarotti