L'installazione di Flavin in Santa MariaL'installazione di Flavin in Santa Maria

La bibbia al neon – Son passati dodici anni da quando il neon di Dan Flavin ha illuminato per la prima volta lo spazio austero di Santa Maria in Chiesa Rossa a Milano: un'operazione di grande eco mediatica, non fosse altro per il credito dell'artista nel mondo dell'arte contemporanea; non fosse per il luogo atipico, l'edificio ecclesiastico progettato dall'architetto Giovanni Muzio nel pieno del ventennio mussoliniano; non fosse per il committente del progetto, il parroco della chiesa Giulio Greco, che volle fortemente l'opera di Flavin perché  rivitalizzasse il lessico della fede, in un ambiente allora  degradato della periferia milanese.

Il nesso mistico-simbolico – Uno degli artisti più amati da Giuseppe Panza, una presenza importante a Biumo con il celebre Varese corridor, scelse neon blu e verdi per la navata centrale, rossi per il transetto, oro per l'abside; dove era evidente nella scelta cromatica, rispetto alla loro ubicazione, il nesso stringente con i diversi significati simbolici, il rifarsi misticamente a spazialità precise ciascuna con un proprio 'golfo mistico'. In quell'occasione un catalogo edito dalla Fondazione Prada, che supportò l'intera operazione, ricapitolava attraverso gli scritti del curatore Germano Celant e di altri studiosi di fama, tra critici d'arte, architetti, filosofi, il rapporto tra l'arte e il sacro, ma soprattutto tra ricerca di artisti contemporanei e luoghi di culto tradizionale; tra gli ambiti del rituale socializzante e le ragioni dell'immaginario. Con uno sguardo particolare al rapporto tra fare laico e progetto religioso, sotto le più diverse prospettive.

Una sguardo al dibattito – Bisognerebbe andare a rileggere quel volume, adesso che il dibattito in merito al progetto – chiamiamolo Panza per sintesi – sta offrendo agganci a polemiche e confronti sul tema; giusto per avere ulteriori poggiature teoriche, argomentazioni ragionate e connettersi a riflessioni maturate in un ambito specificamente a misura del problema. "Il sacro – argomentava ad esempio il filosofo Gianni Vattimo – non è più pensabile mediante simboli naturali; è numinosum, tremendum, fascinans (…) perché non si lascia rappresentare in forme in qualche modo famigliari". Oppure Pierluigi Lia, varesino tra l'altro, sacerdote diocesano nonché docente specializzato in Teologia fondamentale, connessa alla relazione tra fede cristiana, filosofia ed estetica che definisce il lavoro di Flavin senza esitazioni "opera d'arte cristiana".  Flavin, scriveva nell'occasione il teologo "non si dichiarava certo artista cristiano e di lui, personalmente, non conosco opere intenzionalmente 'cristiane'", eppure è stato in grado di realizzare un'opera "che descrivesse l'itinerario che dalla nebbia esterna conduce verso lo splendore di Dio. L'oro del catino absidale canta lo splendore del Dio della luce".

Bill ViolaBill Viola

Lo studio del Cammino – Intanto giusto in questi giorni, ancora a Milano, nella chiesa braidense di San Marco, va in scena un altro capitolo di interazione tra l'ambiente consolidato al sacro e l'opera contemporanea ispirata ad un senso più latamente religioso. Si tratta di un 'trittico' di Bill Viola, affermato videoartista americano: l'opera è Studio for the path (Studio per il Cammino), una sorta di bozzetto digitale di una delle cinque scene che compongono il famoso lavoro Going forth by day, realizzato da Viola, ispirandosi al Libro dei Morti egiziano presentato nel 2002 al Guggenheim di Berlino. Dov'è i senso del sacro? Nella metafora del viaggio, del cammino dell'umanità e del singolo. Il video mostra un flusso continuo di persone – uomini, donne, giovani, vecchi, bianchi e di altre razze –  in un bosco di Los Angeles, nella luce primaverile. E' il viaggio della vita, in un paesaggio che, come d'abitudine per l'artista, ha significativi rimandi alla pittura sacra toscana del Rinascimento.

Commissione preventiva – Non casi isolati: l'arte sacra tradizionale ha subito, è vero, una brusca cesura negli ultimi secoli, ma capofila anche dell'arte aniconica del Novecento vi si sono misurati, in contesti più o meno collettivi. Lucio Fontana, per dirne uno, ma anche Louise Nevelson, Barnett Newman, lo stesso Pollock, Silvio Wolf, per tornare in Italia con una installazione luminosa nella chiesa valdese di Milano, per non dire del vertice dell'impronta umana in un ambiente astrattamente concepito come sacrale, al di fuori di ogni contiguità naturalistica, la Rothko Chapel a Houston smaterializzata dai capolavori dell'artista poi morto suicida qualche anno dopo. Esperienze, queste, non evidentemente descrittive. Non mimetiche né dalla forma oggettuale definibile, alcunché che possa darsi definitivamente per racconto sacro. E tuttavia recepite come tale. Un aspetto su cui riflettere accuratamente nel momento in cui già si levano voci che vorrebbero cautelativamente far scaturire il progetto al Sacro Monte da una commissione che contempli anche teologici e biblisti per una corretta interpretazione della dottrina.