Gianni Berengo GardinGianni Berengo Gardin

"Le mie foto agli americani? No. Sono troppo affezionato, non le darei, significherebbe perdere tutti i diritti. E inoltre credo che anche il progetto che sta portando avanti Bill Gates stia segnando il passo. Problemi di conservazione, di archiviazione, di studio".

Non ci si poteva esimere dal chiedere al Gianni Berengo Gardin una sua opinione sul fantascientifico progetto voluto dall'inventore di Microsoft e fondatore di Corbis, di archiviare nelle viscere della terra, nei labirinti di una ex miniera di minerali ferrosi a nord di Pittsburgh in Pennsylvania.

Quel milione e mezzo circa di scatti che il celebre fotografo settanteseinne nativo di Santa Margherita Ligure ora residente a Milano, conserva nel suo studio resteranno lì dove sono. In futuro, chissà, forse una fondazione, ma si capisce che scaramanticamente l'argomento non è dei suoi preferiti.

Tornato a Gallarate in occasione di FilosofArti, il fotografo avrebbe dovuto tenere un lectio magistralis per l'inaugurazione della mostra Parigi 1954:"Ma sono un supertimido – si è schermito – ed è per questo che fin da giovane ho trovato nella macchina fotografica, in queste scatolette magiche, il modo di raccontare quello che avevo in testa e nel cuore", dice subito parafrasando Henry Cartier Bresson.

Un momento dell'inaugurazioneUn momento dell'inaugurazione

Cosa ha significato Parigi per lei?
"Ci sono arrivato da fotoamatore della Gondola, non ero ancora professionista. Per me è stata una scoperta meravigliosa. Lavoravo di mattina come cameriere, nel resto della giornata la trascorrevo girovagando e fotografando. Ancora adesso conosco meglio il tessuto urbano di Parigi, piuttosto che quello di Venezia o Milano dove pure ho vissuto più lungo".

Parigi era il centro della fotografia, allora.
"In realtà partivo con in testa i modelli americani: Dorothea Lange, Eugene Smith, i fotografi della FSA. Ma in Francia ho potuto frequentare i circoli della fotografia e lì avvicinare i migliori da Doisneau e Boubat. I critici non a caso hanno sostenuto che la mia fotografia sia molto simile al punto di vista della scuola francese".

Le si è aperto un mondo.
"Intanto scoprivo il piccolo formato, abbastanza sconosciuto in Italia, molto restia ad accettare le foto a grana grossa. In Francia invece potevo permettermi il 35mm, invece del 6×6. Scoprivo, senza più abbandonarla da allora la Leica, costosa già allora, come adesso".

Cosa trovava e vedeva in quella Parigi capitale dell'arte e dell'esistenzialismo?
"Mi sentivo un guardone. Era un continuo baciarsi. Per me che venivo dall'Italia dove vigeva l'oltraggio al pudore, era una situazione inebriante. Ero impreparato a vedere questo scene dovunque. ma cercavo di fissarle con la fotografia".

Passiamo ad anni più recenti. Lei ha avuto altre esperienze, anche molto più traumatiche, come fotografo. Quella di Morire di classe, libro a quattro mani curato con Carla Cerati nel 1968, all'interno dei manicomi. Cose è rimasta di quella esperienza?
"In quel momento fu importante per sostenere la legge Basaglia, per la chiusura dei manicomi, legge oggi forse giustamente criticata ma che allora avrebbe dovuto essere modificata con l'esperienza. Di quel lavoro mi rimase impressa la sensazione che anche in città di grande cultura come Firenze, ad esempio, ci fossero situazioni così degradate e degradanti".

Un'altra esperienza di importante significato sociale è stato il suo lavoro dedicato agli zingari.
"Anche in quel caso ieri come allora tanti pregiudizi e tanti miti da sfatare, intorno a questo gruppo etnico. Di loro alla fine sono diventato amico, si è creato un rapporto di reciproca fiducia".

Con gli altri fotografi contemporanei che ha rapporti ha?
"Sono molto amico di Salgado, di Koudelka, i colleghi che stimo di più, ma anche gli italiani Basilico, Scianna, Francesco Zizola, Paolo Pellegrin".

Sono nomi legati o alla documentazione o al fotoreportage. Sono le espressioni che preferisce?
Direi di si. In questo momento il rischio della fotografia è che non sia più ne l'uno né l'altra. Ad esempio: non ho nulla contro il digitale, ma photoshop lo abolirei per legge. O vorrei una legge che obbligasse ad indicare per ogni singola fotografia la sua autenticità. Troppe sono le immagini modificate, alterate con il digitale. Se il mestiere del fotoreporter è obiettivo pur nella sua parzialità del punto di vista, il rischio della manipolazione attuale è altissimo".